Immaginiamo che un giorno, a
Napoli, decidano di buttare giù il palazzo Marigliano o il palazzo Venezia, con
le loro ringhiere in ferro battuto, le pitture sui soffitti, gli stucchi e le
cornici, per fare spazio ad un anonimo condominio di venti o trenta
appartamenti.
Immaginiamo che un giorno, a Roma,
si demolisca qualche residenza nobiliare dell’epoca papalina, una di quelle in
cui viveva il Marchese del Grillo, con il portale in travertino, le nicchie a
bocca di leone per spegnere le torce e i ganci per legare i cavalli, per tirare
su un residence con parcheggio.
Immaginiamo quei muri, quei
balconi, quelle finestre, quei cortili magari un po’ malridotti e fatiscenti che ci raccontano
la storia dei nostri antenati, che sono come l’album di famiglia delle nostre
città, spazzati via impietosamente dalle ruspe. Una barbarie? Eppure succede davvero.
Non nel ventennio fascista, non nella Napoli di Lauro e dei palazzinari al
potere ma oggi, nel ventunesimo secolo. Succede in molti Comuni delle nostre
parti. Succede anche a Frattamaggiore, dieci chilometri a nord di Napoli.
Questa città, fondata secondo la
tradizione dai profughi di Miseno che nel nono secolo d.C. scappavano dalle
invasioni saracene, in un luogo coperto da una vegetazione fatta di cespugli e
“fratte”, si conquistò un posto di rispetto nella Campania Felix grazie alla produzione e al commercio della canapa,
che diedero lavoro a intere generazioni di uomini e di donne. I padroni di
quella terra generosa si arricchivano e con il danaro guadagnato si costruivano
sontuosi palazzi e li adornavano con edicole votive, per assicurarsi la
protezione dei santi e un posto in Paradiso. Scavando per costruire le
fondamenta di quei palazzi, a volte riemergevano dalla terra un vaso, un piatto
o un pezzo di colonna appartenuti all’antica città di Atella o ai piccoli villaggi
circostanti che esistevano prima dei Romani, i cui abitanti inventarono la prima
forma un po’ rozza di teatro basata sulle maschere da cui deriva la nostra commedia.
Poteva accadere che qualcuno decidesse di incastonare quel pezzo di colonna
dentro un muro portante del palazzo, mostrandolo orgogliosamente come un lascito
degli antichi progenitori. In epoca moderna la lavorazione della canapa si
spostò nei grandi opifici costruiti in periferia, in cui lavoravano centinaia
di operai, che oggi restano con le loro altissime ciminiere a ricordare una
storia gloriosa, fatta di fatica, sudore, fanciullezza rubata e puzza di fibre
macerate.
Tutto questo mondo sta
scomparendo per sempre. Dagli anni ’70 in poi è andata avanti una distruzione
progressiva del tessuto edilizio storico della città, che negli ultimi anni ha
preso un’accelerazione impressionante, mentre gli uffici tecnici sfornano a
ritmo continuo licenze per abbattimenti e ricostruzioni, oltre a quelle per le
nuove cooperative edilizie, mostri di cemento che nascono come funghi e divorano
gli ultimi fazzoletti di verde e di suolo libero. Quello che ha sopravvissuto
nei secoli a invasioni barbariche, guerre e terremoti sta per cadere sotto i
colpi impietosi della speculazione, che sta radendo al suolo palazzi antichi, lasciati
per troppi anni nell’incuria e nel degrado, perché la loro manutenzione costa
troppo e i proprietari, spesso eredi dei patrimoni delle ricche famiglie di un
tempo, preferiscono disfarsene e incassare subito i soldi che vengono loro
offerti dai costruttori o dai loro rappresentanti.
Inutile aspettarsi una qualche
forma di opposizione alla progressiva cancellazione della memoria storica e
architettonica del territorio da parte dei politici locali. Più di una volta hanno
contribuito essi stessi in prima persona al sacco della città, per interessi professionali
nell’edilizia o per gli intrecci tra affari e politica che caratterizzano tutti
i Comuni più o meno piccoli. Il cemento muove troppi soldi e tanti, tantissimi voti,
e che importa se poi la gente non ha più spazio per muoversi e aria per respirare.
Quando vengono messi sotto accusa,
i politici si difendono stizziti replicando che non sono loro a rilasciare le
licenze edilizie e che queste non si possono negare se le nuove costruzioni
sono in regola. Ad avvalorare la loro difesa vi è il Piano Casa, che in
Campania, come in altre regioni, viene prorogato ogni anno con il pretesto di
dare lavoro al comparto dell’edilizia e a tutto l’indotto che ci gira intorno e
che consente di ampliare la volumetria esistente degli edifici fino al 35% in
deroga allo strumento urbanistico vigente. Ma questa giustificazione regge solo
in parte. Gli uffici tecnici sono guidati da dirigenti di nomina politica, che in
genere rispecchiano gli indirizzi del governo cittadino. L’ultimo Piano
Regolatore risale a più di venti anni fa. Le recenti amministrazioni comunali sono
inadempienti perché hanno rimandato a oltranza la formulazione del nuovo PUC (Piano Urbano Comunale, la cui
stesura è iniziata mesi fa ma procede molto a rilento), lasciando di fatto campo
libero ad una cementificazione aggressiva, spregiudicata e senza regole. Di
fatto non c’è - ed è difficile credere che sia una dimenticanza e non una omissione
voluta - un limite alla edificazione in rapporto alla popolazione che possa
garantire la vivibilità e non esistono norme di salvaguardia per tutelare gli
edifici di pregio né alcun piano di recupero del centro storico (o di ciò che
ne rimane). Eppure coloro che hanno governato Frattamaggiore in questi decenni si
vantano di averle conferito il titolo di “città d’arte e benedettina”. Che, in
questo scenario, suona come una tragica beffa, una vuota dicitura che appare
sui cartelli stradali quando si entra in città e ci si ritrova immersi in un
caos di palazzoni in costruzione, traffico, lamiere strombazzanti e gas di
scarico, con le betoniere che vanno avanti e indietro come fossero mezzi di un
esercito occupante.
Così, al posto di malandati palazzi
storici, che stanno per essere distrutti tra nuvole di polvere e montagne di
macerie, si preparano a sorgere enormi fabbricati di cemento armato e vetro di trenta
o quaranta nuovi “quartini”, come si dice da queste parti. Case e ancora case, perfino
su cinque o sei piani, che incombono sulle strette vie del centro storico e
rubano gli ultimi pezzetti di cielo. A pochi metri dalla piazza principale, al
posto di un giardino privato, stanno tirando su addirittura un grattacielo di
sette piani che incombe minaccioso sui tetti a tegole vicini, un orrore che
solo a vederlo fa rabbrividire e gridare vendetta. Nuove case di cui non c’è alcun bisogno
- perché la popolazione non aumenta e in città si contano decine di
appartamenti sfitti - che accresceranno il carico sulla rete idrica e fognaria
fino a farla scoppiare e che riverseranno sulle anguste e sovraffollate strade
cittadine centinaia di nuove automobili, inquinando sempre di più l’aria, che
nelle ore di punta dei giorni lavorativi e nei week-end è già irrespirabile. I
risultati di questa gestione scellerata e irresponsabile del territorio
purtroppo già si vedono. Una follia legalizzata che guarda solo all’effimero
profitto derivante da questa speculazione, di cui beneficeranno in pochissimi,
e che renderà ancora più invivibile un territorio già congestionato dall’eccesso
di cementificazione e da una densità abitativa ed edilizia tra le più alte
d’Italia. Secondo i dati più recenti aggiornati al 2015, Frattamaggiore, con i
suoi cinque chilometri quadrati di superficie, è al 14° posto nella graduatoria
di tutti i Comuni italiani (su quasi 8mila!) per consumo di suolo, mentre nei
primi dieci posti ci sono altri sette Comuni della provincia di Napoli (fonte
ISPRA - Istituto Superiore per la Ricerca Ambientale), e continua a salire in
questa infelice classifica. Si sta saturando di costruzioni un territorio che
avrebbe bisogno invece di spazi aperti, di verde, di servizi e strutture
collettive, soprattutto per i bambini e per gli anziani, che ormai non hanno
quasi più luoghi dove stare e d’estate soffrono più degli altri le ondate di
calore aggravate dalla mancanza di alberi. La popolazione assiste senza
reagire, spesso indifferente o troppo impegnata a pensare ai problemi della quotidianità.
Ma uno spiraglio di luce si sta
aprendo in questa notte che, come diceva una canzone di qualche anno fa, “dovrà
pur finire”. Un fronte di cittadini e di associazioni, tra cui quella che, non
a caso, si è scelta il nome di “LiberiAmo Fratta” - nata per liberare la
politica locale dalla morsa soffocante delle clientele e dell’affarismo e che pone al primo posto la difesa dell’ambiente,
la cura dei beni comuni, la qualità della vita e la partecipazione dei
cittadini alle scelte di governo e che alle ultime elezioni è riuscita a far
eleggere due consiglieri comunali - oltre al gruppo campano di Green Italia, ha
detto basta e ha deciso di fermare questo scempio, lanciando l’allarme per
sensibilizzare l’opinione pubblica e chiedendo di vederci chiaro su molte
licenze edilizie “facili”. Anche la Soprintendenza per i Beni Architettonici è stata
allertata, con l’apertura di un tavolo di lavoro avviato diversi mesi fa, con
la richiesta di accendere i riflettori sul caso Frattamaggiore e di avviare
procedimenti per "dichiarazione di interesse culturale" riguardanti diversi
immobili storici che potrebbero essere così salvati dalla demolizione, tra cui
un ex-canapificio che è uno splendido esempio di archeologia industriale e che
qualcuno vorrebbe buttare giù per costruire al suo posto l’ennesimo complesso
residenziale.
Non è una battaglia di pura
nostalgia perché quei palazzi antichi, quelle facciate logorate dal tempo e
dall’incuria, se curate, rimesse a nuovo, valorizzate, potrebbero creare un
indotto economico duraturo e significativo, ospitando visite guidate, percorsi
turistici, spazi museali ed espositivi, dare lavoro ad operai, artigiani e
professionisti attraverso piani di manutenzione e riqualificazione urbana, finanziati
con fondi regionali, nazionali ed europei, coinvolgendo anche le scuole del
territorio con progetti di studio e di ricerca.
Bisogna fare presto, perché il rombo
minaccioso delle ruspe incombe per radere al suolo le ultime speranze di vivere
in una città con una identità e una dimensione umana. Quella stessa città, a pochi chilometri dalla capitale di un regno, che
alla fine del Seicento vide nascere un genio assoluto della musica sacra come
Francesco Durante: il quale, se tornasse a vivere oggi, di fronte a questa
strage silenziosa che si consuma sotto i nostri occhi, forse troverebbe ispirazione
per comporre uno dei suoi requiem.
Sergio Frattini
Luigi Costanzo